Natale del cuore


 

Ci sono posti che ti entrano dentro e ci lasci il cuore, come con certe persone


Una delle tante frasi che trovi sui social, con un bel tramonto dietro, magari corredato dalle onde di un bel mare calmo e amico. Un complemento alla sigaretta in un momento fugace di pausa, quando cerchi di attivare il reset tra i vari spicchi della giornata. Niente di complesso o impegnativo. Spegni la cicca e torni in sella.

E invece no. Ho continuato a rifletterci fino a sera, quando è arrivato il momento di assestarmi, fare il bilancio quotidiano e spuntare nella mente la lista delle cose fatte/da fare.

Forse io non ho un posto del cuore. Non uno solo, voglio dire.

A ben pensarci, ogni luogo che mi accoglie per un po’ finisce per diventare il mio posto del cuore. Si guadagna la mia riconoscenza. Si insedia in me. Ho lavorato in diversi comuni campani e ogni volta ho fatto in modo di lasciarci il cuore. Può darsi che io non sappia fare diversamente, o che non possa farne a meno. Ho un cuore grosso, più lo spezzetto e più ne resta disponibile.

Ricordo bene quando sono arrivata a San Pietro per la prima volta, esattamente 7 anni fa. Sono napoletana e fino ai miei 39 anni avevo vissuto a meno di 5 km da qui. Poi mi sono trasferita “in città”, raddoppiando la distanza, e solo allora mi è capitato di venirci a lavorare. Era quasi Natale, allora come adesso, e mi ci accompagnarono per presentarmi all’equipe, in qualità di new entry, proprio durante la festa augurale della Cooperativa, e per mostrarmi il territorio, in un breve tour improvvisato e assolato.

In quella occasione presi le prime misure per stabilire un legame che si è rafforzato nel tempo, al punto che oggi non saprei immaginarmi altrove.

Mi piace arrivare al mattino, sistemare le mie mille cose, prepararmi il mio primo caffè e gustarlo guardando il Vesuvio di fronte, le strade, le pietre, i portoni che saluto ogni volta e che racchiudono le storie in cui mi è dato di entrare, sempre con delicatezza ed emozione.

* * *

Ogni mattina Estia sorge prima dell’alba nella sua piccola casa vuota. Con una minuscola tazzina di caffè tra le mani guarda la luce del nuovo giorno scacciare via la notte e pensa: “Come sarebbe bello se potesse accadere così anche nella mia vita!”. Abbraccia nella mente il figlio ancora addormentato nel suo letto lontano e invidia il compagno che lo bacerà al risveglio. Lei non lo vede quasi mai. Non riesce ancora ad accettare appieno “questa cosa”. Neanche sua figlia ci riesce. Non c’è rimedio per il suo cuore di mamma diviso. Non fa colazione, si veste e va al lavoro. Pulisce le case e le cose degli altri fino al pomeriggio inoltrato, salta il pranzo, fa visita alla sua amica inferma per assisterla, poi a sua figlia per stirarle il bucato e finalmente, quando torna il buio, anche lei fa ritorno nella sua piccola casa vuota. Si sveste del suo sorriso dolce e remissivo, mette su una pentolina con dell’acqua, poi ci ripensa.

E’ troppo stanca e lo stomaco non si apre. Trova una mela sul lavello e si forza a tagliarla in pezzi piccolissimi per riuscire ad ingoiarne qualcuno. Come lo stomaco, anche la gola è chiusa.

Tutto è diventato stretto, tranne i suoi vestiti. Estia però non se ne cura, fanno parte di un’altra vita, quando una casa vera, con delle cose e una famiglia dentro, ce l’aveva pure lei. Ora si rifugia nelle tute da lavoro e non le servono altri outfit. “Stai scomparendo!” le dicono continuamente, e lei pensa: “Magari!”.

A questo punto la indirizzano a conoscermi. Ci incontriamo e immediatamente i suoi grandi occhi e la sua sottigliezza mi agganciano. Mi porta i mille dolori che sente nelle ossa e nell’anima. Ha meno di 50 anni ma ha già vissuto troppe vite non sue. Ora forse troveremo insieme il modo di liberare la dea che è in lei. E quando verrà a trovarmi con un pullover color glicine e i capelli ravvivati dai colpi di sole che si è fatta fare dal parrucchiere e mi dirà che quest’anno festeggerà il compleanno e poi forse anche il Natale con entrambi i suoi figli, allora sentirò che è proprio qui che intendo poggiare il mio cuore, almeno ancora per un po’.

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Ogni mattina Kore si sveglia e cerca di capire chi è. Il suo corpo è tutto istoriato di immagini che simboleggiano le sue emozioni eppure non sa riconoscersi. Ha 24 anni e si sente come tutte le altre che, come lei, sono irrisolte. Non studia, non ha un lavoro, non ha sogni che le siano noti. Non ha un amore vero ma tanti fasulli. Annaspa nello smarrimento, perde continuamente il filo e si diluisce nelle sue mille identità coesistenti e contrastanti, che non sa assolutamente districare. “Oggi che giorno sarà? Un giorno a mille o uno sottozero? Sarò amata o sarò violata?

L’ansia mi accompagnerà benevola o mi toccheranno altre lunghe ore di fuga? Nessun nascondiglio è sicuro…”. Qualche volta si domanda come si fa ad esistere. Lei, per sentirsi viva, deve farsi male. Deve tagliarsi per credere di avere sangue nelle vene. Deve rimarcare la linea intorno agli occhi e il colore dei capelli per sapere di avere reale consistenza. Deve esporsi, essere come la vogliono, anche a costo di non trovarsi più. Non sa descrivere i frammenti che ha conficcati dentro di sé, sa solo di essere disposta a qualsiasi rinuncia pur di avere qualcuno fuori. Ha imparato da piccola e non riesce a smettere, non sa come altro procurarsi amore o almeno un suo surrogato.

Un giorno mi raggiunge e iniziamo a lavorare insieme, a spostare i suoi blocchi, anche se si riformano, ma ogni volta lo fanno con meno vigore. Sappiamo che avremo la meglio. E intanto il suo rossetto non ha più bisogno di essere nero e può essere rosa tenue.

Questo posto è uno scrigno di cose preziose, il mio cuore resta qui per custodirle.

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In questi anni qui ho incontrato queste e tante altre persone, ho condiviso un pezzetto del loro cammino e delle loro storie, ho avuto la buona sorte di poter stare loro accanto. Ho voluto nominare queste due donne, che ho scelto in rappresentanza delle tante storie che ho raccolto nel mio tempo di lavoro sanpietrese, come delle dee per la sacralità del loro vissuto e per la mistica della relazione che mi hanno donato.

Qui ho appreso che ci sono infiniti modi di aver cura, e l’approccio “clinico” è solo uno di questi. Quando l’intervento si profila, invece, come psico-socio-educativo, si compone di altri linguaggi e altre valenze e conduce a risultati diversamente complessi, complementari e articolati ma sempre profondamente umani.

Qui ho imparato ad essere quella che sono oggi.

Lascio nelle mani di questo Natale il potere di recare pace, nella sua magica notte, alle famiglie reali e immaginarie che si riuniscono nelle case e che si addensano dentro ciascuno di noi.

Mariarosaria Paesano

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